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A cura di Gabriele Landi (Fonte: Parola d’artista, 2023)
Gabriele Landi: Ciao Giovanni, che importanza ha nel tuo lavoro la relazione materia/spazio?
Giovanni Longo: Ciao Gabriele, l’origine del materiale nella mia ricerca costituisce una matrice concettuale. Inserirsi in un processo naturale, nell’azione che la forza della corrente dei fiumi compie su questi arbusti, sradicandoli e trascinandoli a riva, corrompendoli nella loro forma e cromia, non riguarda solo il mero recupero bensì un’interferenza. È come se una diga deviasse questo flusso di materia portandola altrove, sia esso un luogo espositivo, una galleria o un museo. Io conservo le forme scaturite dalla natura, le classifico, le archivio e le utilizzo per creare queste strutture dove i singoli componenti ricoprono un ruolo portante, con il fine di completare questa evasione.
Gli spazi d’interazione divengono quindi due: quello dove avviene il prelievo e quello dove si completa il processo, che porta questi elementi alla privazione del tempo divenendo dispositivi poetici o, quantomeno, provando a esserlo.
G. Landi: In che modo questi dispositivi dialogano con lo spazio che li accoglie?
G. Longo: Lo fanno in molti modi. C’è un aspetto insito nelle strutture che risultano esili, delicate, all’apparenza fragili; anatomie complete o incomplete che presentano fessure, vuoti, concavità, lasciandosi quindi totalmente attraversare dallo spazio che li circonda, senza opporre resistenza. C’è poi il contesto che condiziona il colore delle superfici, le dimensioni, la prospettiva, la correlazione con il fruitore. Esporre queste opere in uno luogo neutro, in un parco archeologico o nella natura produrrà chiaramente esiti differenti. Infine c’è la relazione tra questi due aspetti, ovvero la compresenza dell’uno nell’altro. E allora ecco che componenti lignee affusolate simulano delle code utilizzando delle protrusioni coniche della parete (Threesome, 2020), un spina dorsale è funzionale a curvare e raccordare due parti tubolari che emergono dal suolo (Morph, 2021) o un’asta provvista di costole puntella un muro, affondando in esso, lasciando il dubbio su chi sia il reale sostegno (Collapse, 2022).
La mia è una scultura che definirei leggera, sostenuta da ciò che si ritrova intorno alla conquista di un baricentro stabile, non solo fisico ma anche estetico e, persino, ideale.

G. Landi: Ti interessa la dimensione poetica del lavoro?
G. Longo: Più o meno credo che ogni artista si confronti con questa dimensione. Ritengo importante che nasca da sé, naturalmente e non attraverso forzature. Per questo penso sia necessario scendere verticalmente in profondità nella propria pratica artistica, nei propri gesti ricorsivi, capirne le motivazioni intime. Questo non impedisce di lasciarsi condizionare da ciò che è all’esterno di noi ma, probabilmente, aiuta a leggerlo in modo più personale e scevro da facili scorciatoie o stanche retoriche.
G. Landi: Come procedi nel lavoro? Sono i materiali che impieghi a suggerirti cosa fare o parti da un’idea prestabilita?
G. Longo: Di solito parto da un progetto per poi recuperare ciò che mi serve. Gli scheletri sono delle carte d’identità evoluzionistiche, ogni classe porta con sé un patrimonio che si è ottimizzato in milioni di anni, basti pensare alle differenze tra uccelli, anfibi o mammiferi. Sono le loro anatomie ad essersi adattate alla sopravvivenza. Trovo questo aspetto affascinante e sin dall’inizio della mia ricerca ho nutrito un forte interesse per quel tipo di forme mutate dalla necessità. Per me il parallelo con queste radici e rami alla deriva, il cosiddetto driftwood, è stato immediato e mi ha permesso di trasferire altra memoria come quella di un territorio, di un paesaggio, di un’identità, per creare un unico elemento.
G. Landi: In questa stessa ottica hai mai provato interesse per il paesaggio?
G. Longo: Il paesaggio è un insieme di ecosistemi naturali, correlazioni antropologiche e spaziali: è intorno a noi ma anche dentro di noi, dentro gli esseri viventi che lo animano e le cose che lo costituiscono. Credo che nel mio lavoro questa relazione sia intrinseca, per quanto ancora esplorabile.
Nel 2016 ho realizzato una personale dal titolo Fragile Landscapes (MARCA Museo delle Arti di Catanzaro, catalogo Rubbettino Editore) partendo proprio da questo concetto di natura fluida e delicata. Il corpo centrale della mostra era costituito dagli scheletri, ma erano presenti anche esperienze multidisciplinari, come grandi diagrammi economici che diventava colorati paesaggi o il documento video della distruzione dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan, rimodulato lasciando i secondi precedenti e immediatamente successivi la detonazione.
Riflettendo a posteriori mi sono accorto di avere operato sempre con un metodo molto simile a prescindere dal mezzo: archiviando forme, dati, informazioni per portali oltre determinati confini, restituendo una nuova fisicità e anche un nuovo paesaggio al materiale raccolto.
G. Landi: Come procedi nella raccolta del materiale che impieghi e che criteri adotti?
G. Longo: Nel corso del tempo ho perfezionato e migliorato molto questa fase e, man mano, ho costituito un archivio che mi permette di non andare ogni volta in loco per effettuare il recupero.
Partendo dalla foce delle fiumare, mi soffermo sui materiali meglio conservati e sulle forme che sto cercando. Talvolta prediligo la raccolta di legni più duri come ulivo e pino, altre volte rilevo invece arbusti più leggeri, come l’oleandro e le sue radici. Anche se a uno sguardo superficiale non si direbbe, la gamma di cromie è parecchio vasta e diviene parte integrante della scelta. Si possono notare superfici molto ingiallite o tonalità più neutre o i residui scuri delle cortecce, tatuate sui legni ormai consumati. Tutto questo richiede una profonda osservazione che si completa in studio quando vado a classificare il legno raccolto dividendolo per forma e dimensione. Per esempio c’è chi sarà una “Scapola S”, per via della sagoma triangolare di piccole dimensioni, e chi una “Costola L” se presenterà un’ampia curvatura.
Mi rendo conto che tutto questo può sembrare una leggera follia, e in effetti lo è. Ma risulta necessaria per entrare in simbiosi con questo flusso naturale e velocizzare il lavoro di comparazione, permettendomi di individuare facilmente gli elementi utili a costituire l’insieme di una determinata opera.

G. Landi: Il lavoro in studio come si svolge?
G. Longo: Dopo aver accumulato e classificato i materiali questo archivio diviene uno degli strumenti di lavoro. Posso consultarlo e ripescare i pezzi utili che verranno uniti attraverso varie tipologie di giunture, a secondo se esse dovranno essere fisse o semimobili. Il completamento delle opere può avvenire anche simultaneamente, in attesa di individuare le parti più adatte, aspetto che può richiedere anche diversi mesi.
Devo dire però che la mia concezione di studio, proprio alla luce di questa attesa, si è parecchio allargata. Oltre al luogo fisico dove si concretizzano le cose, lo studio è per me uno stato di allerta perenne, finalizzato all’accumulazione compulsiva di informazioni scientifiche, suggestioni tecnologiche, filosofiche, sociali che, una volta sedimentate, interagiranno con la materia seguendo percorsi misteriosi e producendo di continuo opere del tutto teoriche.
G. Landi: L’aspetto ludico ha una qualche importanza nel tuo lavoro?
G. Longo: Mi piace pensare sia tutto un gioco questo dell’arte e cerco di conservarne quella visione ludica e di continua scoperta tipica dei bambini. Ma non è sempre facile. L’arte è confrontarsi anche con un’inquietudine, un dolce tormento che ti accompagna verso altri sentieri.